Scuola Jazz di Quarto

anonimo 26-11-19 10.02
Mi aveva convinto il programma, un astuto melange di rassicurante tradizione classicista e di velleitarie boutades tipo "musica d'insieme" e "lydian chromatic concept".

Mi aveva convinto la vicinanza alla sala prove, ricavata negli scantinati adiacenti alla palestra di un asilo retto con teutonico dispotismo dalla bellissima e feroce madre del mio bassista, ove, sedicenni brufolosi ed idealisti, eravamo soliti affastellare i nostri primi esperimenti di rock progressivo e fusion maldigerita.

Ma mi aveva convinto sopratutto la mia fame inestinguibile di ordine, struttura, comprensione profonda; e così, dopo inenarrabili trattative coi miei genitori per procurarmi l' "argent de poche" necessario alla pur proletarissima quota mensile, mi ero finalmente iscritto alla Scuola Jazz di Quarto.

Il primo approccio era stato sottilmente inquietante: ricavata nella ex VIII divisone dell'ospedale psichiatrico di Genova, ormai quasi completamente dismesso, la sede della scuola si trovava ai margini estremi di questo tetro villaggio di padiglioni neoclassici affogati in una triste processione di smagriti lecci e radi pini marittimi.

Per raggiungerla bisognava attraversare, navi alla deriva in un oceano sconosciuto, stretti corridoi e vialetti male illuminati ove sembrava ancora di sentire risuonare le urla disperate delle anime perdute che nei secoli avevano scontato qui la loro irriducibile diversità e la paura cieca ed totale che i buoni borghesi sempre nutrono per ciò che va al di là della bottega e dei quotidiani convenevoli sociali.

Talvolta capitava di scorgere di lontano una sagoma che si affrettava svicolando per usci sbarrati e scalette sprofondanti nelle viscere di questa belva moribonda, e non sapevi se si trattasse di un altro allievo della scuola, o di un infermiere in servizio in uno dei pochi reparti ancora in funzione ove si maceravano gli ultimi rimasugli di un'umanità troppo incurabile persino per la progressista psichiatria postbasagliana, se fosse magari uno di questi dannati sfuggito per errore alla sua cella imbottita o ancora il fantasma di qualche pazzo criminale che, disturbato nel suo sonno eterno dalla presenza di anime vive, sorgesse dal suo avello per scacciarle e poter così tornare a quella pace che solo la morte aveva saputo donargli.

Ma ecco l'arco dell'ex ottava divisione, colonna di rodi che marcava l'approdo sicuro del giardinetto malcurato ove, su panchine di marmo sbrecciato, altri compagni di avventure attendevano l'apertura della scuola; ecco le portefinestre di vetro smerigliato, sbadiglianti la loro luce giallastra e iodata su una sera autunnale che non riuscivano mai a rischiarare, promessa poco credibile di salvezza e tepore.

Dentro, il caos.

Nonostante l'ex ottava divisione fosse quella dei pazzi furiosi, e dunque rigurgitante di celle imbottite, doppie porte e spesse mura di pietra, il fracasso era infernale: pianoforti pestati senza misericordia, saxofoni di ogni taglia e fattura che belavano disperatamente inerpicandosi su irte montagne di pentatoniche, batterie percosse con una foga selvaggia e belluina, il tutto impreziosito da contrappunti dei più inusitati e inpensabili strumenti quali clarinetti contralti, bassi tuba, arpe birmane e glockenspiel.

[SEGUE]
anonimo 26-11-19 10.23
E finalmente, la musica d'insieme.

Immaginatevi una ventina di giovinastri, perchè solo dei malconsigliati giovinastri possono interessarsi a quel groviglio di contraddizioni che è il jazz, eros e tanathos della musica moderna, immaginatevi dicevo venti giovinastri accaldati, spesso fumati e sempre esagitati, pressati come sardine in una cella di sicurezza per pazzi furiosi, le pareti ancora imbottite per evitare atti di autolesionismo (e forse, coi jazzisti, ciò avrebbe potuto non essere affatto inutile), un piano che sembra ripescato dal naufragio di una nave da crociera di terza classe, una batteria evidentemente sovradimensionata e tanta voglia di dire la propria.

Venti giovinastri, di cui almeno cinque pianisti, cinque batteristi, un paio di chitarristi, un paio di sassofonisti, un percussionista, un virtuoso di euphonium, un flautista e, se va bene, un bassista...la corsa ad accaparrarrsi gli strumenti è feroce e senza pietà, sguardi in tralice, spallate, insulti a mezza bocca, niente viene risparmiato pur di prendere possesso di quello sgabello da cui, già lo so, scollare il proprio compagno-avversario sarà lotta improba e senza esclusione di colpi.

Il maestro, spaventato ed inesperto, tenta vanamente di dare una parvenza d'ordine a quello che già si presenta come un coacervo di barriti, raffiche di mitragliatrice, colpi di karatè sulla tastiera, roba da mandare in visibilio un Filippo Tommaso Marinetti in acido; inutili i geroglifici che traccia su una lavagna a fogli mobili, cercando di far entrare a forza nelle zucche impermeabil di questi caproni, che fino a ieri si pascevano di Smoke on the Water o peggio di Guccini e Degregori, l'eterna semplicità del blues in Si bemolle.

Inutile. Tutto inutile.

Bramiti smozzicati da alce in calore, tonica e sopratonica si inseguono senza ordine né misura, ogni tanto il pianista inserisce ad libitum una dominante che nessuno ascolta, il sassofonista, ignaro della natura traspositrice del suo ignobile strumento nato per far ballare nelle sagre di paese dei bellimbusti impomatati avvinti a ragazzotte in cerca di struscio, macina senza pietà pentatoniche una quarta sopra.

Tutti insieme appassionatamente, il flauto che ricama nel registro acuto abbellimenti da circo orfei, il prossimo pianista che spinge per subentrare e poter così anche lui sparare toniche e sottodominanti a casaccio, accordi grevi e melmosi ereditati da una pratica acerba ma presuntuosamente esibita fatta di organo farfisa e hard rock.

[SEGUE}
anonimo 26-11-19 10.39
Contemporaneamente nella stanza accanto, chiusa la porta doppia, nel silenzio improvviso delle pareti imbottite, si consuma invece il rito per pochi eletti della "lezione privata".

Oh Paolino Silvestri, nume dell'armonia funzionale ove tutto si risolve ed ogni conflitto si placa nell'ordine assoluto della fisica acustica, oh Claudio Lugo, impresentabile nei suoi pantaloni alla sviluppo da coreano del nord, sguardo eternamente fisso sui misteri esoterici dell'approccio modale, oh decine di maestrini famosi e meno famosi che, in quelle stanzette asfittiche, avete cercato per quatto soldi malguadagnati di scoprire insieme ai vostri allievi qual'è veramente il segreto del jazz.

Ognuno col suo sistema, ognuno col suo metodo, conventicole segrete che mai si confrontavano o si parlavano, ognuno certo di sapere la verità ma in cuor suo spaventato ed insicuro come non mai; metodi acerbi, perdipiù, assolutamente inadeguati, e col senno di poi è facile dirlo, a spiegare anche ellitticamente, parzialmente, qual' è il segreto che ti fa improvvisare.

Alcuni, comunque, ce la facevano. Nonostante il loro metodo, anzi direi persino contro il loro metodo.

Una frase smozzicata, due note, un'intuizione malesposta, e la Verità si mostrava. Scintillante. Luminosa. Innegabile ed eterna.

Lì, da quelle due parole dette magari inconsapevolmente, nasceva il germe che, piantato in una sera d'inverno sotto il fango del caos della musica d'insieme e sotto le aride sabbie dei metodi modal-free-lydian-coltraniani, un giorno mi avrebbe fatto balbettare la mia prima, vera frase.

Una frase di blues intera, giusta, precisa, diretta.

Dal cuore alle orecchie dell'ascoltatore. Senza intermediari. Senza teoria. Senza nulla, se non il ricordo vago, annebbiato di quel seme che un giorno lo sparuto maestrino piantò inconsapevolmente nella mia anima di giovinastro malconsigliato.

[FINE]
BB79 26-11-19 13.50
@ anonimo
Contemporaneamente nella stanza accanto, chiusa la porta doppia, nel silenzio improvviso delle pareti imbottite, si consuma invece il rito per pochi eletti della "lezione privata".

Oh Paolino Silvestri, nume dell'armonia funzionale ove tutto si risolve ed ogni conflitto si placa nell'ordine assoluto della fisica acustica, oh Claudio Lugo, impresentabile nei suoi pantaloni alla sviluppo da coreano del nord, sguardo eternamente fisso sui misteri esoterici dell'approccio modale, oh decine di maestrini famosi e meno famosi che, in quelle stanzette asfittiche, avete cercato per quatto soldi malguadagnati di scoprire insieme ai vostri allievi qual'è veramente il segreto del jazz.

Ognuno col suo sistema, ognuno col suo metodo, conventicole segrete che mai si confrontavano o si parlavano, ognuno certo di sapere la verità ma in cuor suo spaventato ed insicuro come non mai; metodi acerbi, perdipiù, assolutamente inadeguati, e col senno di poi è facile dirlo, a spiegare anche ellitticamente, parzialmente, qual' è il segreto che ti fa improvvisare.

Alcuni, comunque, ce la facevano. Nonostante il loro metodo, anzi direi persino contro il loro metodo.

Una frase smozzicata, due note, un'intuizione malesposta, e la Verità si mostrava. Scintillante. Luminosa. Innegabile ed eterna.

Lì, da quelle due parole dette magari inconsapevolmente, nasceva il germe che, piantato in una sera d'inverno sotto il fango del caos della musica d'insieme e sotto le aride sabbie dei metodi modal-free-lydian-coltraniani, un giorno mi avrebbe fatto balbettare la mia prima, vera frase.

Una frase di blues intera, giusta, precisa, diretta.

Dal cuore alle orecchie dell'ascoltatore. Senza intermediari. Senza teoria. Senza nulla, se non il ricordo vago, annebbiato di quel seme che un giorno lo sparuto maestrino piantò inconsapevolmente nella mia anima di giovinastro malconsigliato.

[FINE]
touché emoemoemoemo
questa fa il paio con la jam durante la nevicata... indimenticabile.emoemo
Sarebbe cosa buona e giusta una raccolta...seriamenteemo
cecchino 26-11-19 15.47
Applausi emoemoemo
JoelFan 26-11-19 16.33
@ anonimo
Contemporaneamente nella stanza accanto, chiusa la porta doppia, nel silenzio improvviso delle pareti imbottite, si consuma invece il rito per pochi eletti della "lezione privata".

Oh Paolino Silvestri, nume dell'armonia funzionale ove tutto si risolve ed ogni conflitto si placa nell'ordine assoluto della fisica acustica, oh Claudio Lugo, impresentabile nei suoi pantaloni alla sviluppo da coreano del nord, sguardo eternamente fisso sui misteri esoterici dell'approccio modale, oh decine di maestrini famosi e meno famosi che, in quelle stanzette asfittiche, avete cercato per quatto soldi malguadagnati di scoprire insieme ai vostri allievi qual'è veramente il segreto del jazz.

Ognuno col suo sistema, ognuno col suo metodo, conventicole segrete che mai si confrontavano o si parlavano, ognuno certo di sapere la verità ma in cuor suo spaventato ed insicuro come non mai; metodi acerbi, perdipiù, assolutamente inadeguati, e col senno di poi è facile dirlo, a spiegare anche ellitticamente, parzialmente, qual' è il segreto che ti fa improvvisare.

Alcuni, comunque, ce la facevano. Nonostante il loro metodo, anzi direi persino contro il loro metodo.

Una frase smozzicata, due note, un'intuizione malesposta, e la Verità si mostrava. Scintillante. Luminosa. Innegabile ed eterna.

Lì, da quelle due parole dette magari inconsapevolmente, nasceva il germe che, piantato in una sera d'inverno sotto il fango del caos della musica d'insieme e sotto le aride sabbie dei metodi modal-free-lydian-coltraniani, un giorno mi avrebbe fatto balbettare la mia prima, vera frase.

Una frase di blues intera, giusta, precisa, diretta.

Dal cuore alle orecchie dell'ascoltatore. Senza intermediari. Senza teoria. Senza nulla, se non il ricordo vago, annebbiato di quel seme che un giorno lo sparuto maestrino piantò inconsapevolmente nella mia anima di giovinastro malconsigliato.

[FINE]
Avvincente la narrazione, davvero.
simondrake 26-11-19 18.02
@ JoelFan
Avvincente la narrazione, davvero.
Grazie è bellissimo il racconto. Chissà se ci regali una registrazione di quella frase blues, se la ricordi ancora.
anonimo 26-11-19 19.38
@ simondrake
Grazie è bellissimo il racconto. Chissà se ci regali una registrazione di quella frase blues, se la ricordi ancora.
Me la ricorderò finché campo

Sabato alla masterclass la registriamo e la mettiamo sul tubo
clouseau57 26-11-19 21.30
emo