29-11-22 23.16
Quando ero ragazzino i miei genitori, dopo mesi di insistenza che neanche Bart Simpson, si decisero finalmente a mandarmi a lezione di piano da una tizia - la signorina Blonkensteiner, un’acida zitella dalle arie mitteleuropee ma brutta come il culo di un cane da caccia.
Essendo le condizioni economiche familiari quello che erano - padre disoccupato cronico e madre impiegatuccia con stipendio da Biafra - soldi non ne giravano molti e non era questione di comprare, e neppure noleggiare, un pianoforte; dovevo arrangiarmi con l’organetto elettronico della sagrestia che padre Mariano, rettore dell’oratorio dei padri Canossiani, mi permetteva di suonare quando nella cappelletta dell’ oratorio non si svolgevano funzioni, rosari o altre attività.
Ma questo non bastava certo alla mia smania da principiante incallito. Volevo di più. Meritavo di più.
Così da un pezzo di cartone ricavato da una scatola di scarpe da ginnastica vecchie di mio cugino - donatemi con una generosità pelosissima in quanto erano così brutte e sformate che non se le sarebbe messe manco Abebe Bikila - ritagliai un rettangolo su cui disegnai un paio di ottave di tasti bianchi e neri, che dipinsi scaricando completamente due pennarelli che avevo abilmente sottratto all’atelier di disegno della scuola elementare che frequentavo - la turpe Dante Alighieri, teatro di inenarrabili lotte intestine tra il corpo insegnante composto da vecchie beghine avioprive ed i tre giovani maestri comunisti del doposcuola, di cui uno con un barbone da far impallidire Marx.
Fu un periodo di delizie sublimi ed estasi infinita: le mie dita mulinavano sul ruvido cartone mentre mugolavo con voce strozzata le note corrispondenti ai tasti che i miei inesperti polpastrelli sfioravano, tremebondi e leggeri, in un parossismo di gioia ed ebbra felicità.
Durò, purtroppo, assai poco. Dopo qualche lezione mi resi conto dell’esistenza di quella brutta bestia chiamata “polifonia” ed il mio apparato fonatorio, ancora ignaro dei virtuosismi tibetani di Demetrio Stratos, si arrese quasi subito all’impossibilità di emettere più di una nota simultaneamente. E così il mio primo strumento finì impietosamente nel cestino della spazzatura - all’epoca, primi anni 70, la differenziata ancora non usava.
Fortunatamente a Natale, grazie ad una colletta tra nonni, zii e parentado vario, arrivò un enorme catafalco nero, un Hoffman di quindicesima mano in noleggio con riscatto, impreziosito da candelieri stile burgmeister guarniti di ceri rossi a tortiglione e munito di un tappo di sughero interposto tra telaio e cassa di risonanza che, quando di spostava, trasformava il suono del piano in un gioioso ronzare di api impazzite.
Ma questa è un’altra storia.