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Patterns for jazz
Ci fu un periodo nei tardi anni settanta – mentre, brufoloso adolescente, mi approcciavo timido e guardingo al magico e terribile mondo del jazz – in cui ogni bravo studente non faceva altro che giurare sulla grande, unica bibbia dell’improvvisazione: il famoso “Patterns for Jazz” di Jerry Coker.
E fu così che un simpatico ed efficace libro di esercizi – diciamo una sorta di “Hanon Jazz” si trasformò per incanto nell’unico, magico testo capace di insegnare agli italici discepoli quell’arte elusiva che è l’improvvisazione jazz.
Le aule delle scuole di Jazz di tutt’Italia – mi ricordo con nostalgia della scuola jazz di Quarto, alloggiata opportunamente nell’ex ospedale psichiatrico di Genova - risuonavano senza sosta di questi “blocchetti” melodici, spesso semplici patterns diatonici o al più esercizi su qualche inciso cromatico, ripetuti ossessivamente sino a divenire elementi nucleari inconsci di ogni tentativo d’improvvisazione jazzistica degna di questo nome.
Poco importava il fatto che l’allievo-tipo ignorasse bellamente il perché un dato pattern “suonasse bene” e quali fossero i principi che stavano dietro alla costruzione di questi incisi melodici: alla “scimmia nuda” jazzistica bastava imparare a schiacciare i tasti nell’opportuna sequenza e – miracolo! – il tanto agognato solo si palesava senza alcuno sforzo che non fosse eminentemente mnemonico-muscolare.
Fu l’inizio di quella generazione di musicisti che mi piace definire “solisti-lego”, abili giocolieri in possesso di un adeguato arsenale di patterns da inanellare uno dopo l’altro con perizia metalmeccanica, quella generazione di scimmie schiacciabottoni che suonavano tutte uguali, chi più swingante e chi meno, chi con più ricchezza (aveva imparato a memoria più patterns) e chi con una povertà ed aridità da far pena ad un mendicante di Calcutta. Una generazione che fortunatamente si estinse presto, ma che sfortunatamente passò il poco invidiabile testimone di “nemico della musica” ai già accennati cultori del metodo della relazione scala/accordo.
Ora, l’utilizzo di un pattern – chiamiamolo “blocchetto” in italiano, che fa meno pretenzioso – resta comunque un utile stratagemma per costruire esercizi sia tecnici che di sviluppo dell’improvvisazione, ma solo a patto che ne venga compreso il meccanismo compositivo interno – il “perché” quelle note messe in fila suonino così bene – e che si eviti come la peste bubbonica ogni accenno di automatismo ed esecuzione meccanica. Vedremo più avanti come usare i blocchetti per aiutarci a costruire lo sviluppo della frase e soprattutto la fluida transizione tra un accordo ed il seguente.